Avevamo il sospetto che la settimana che sta per finire, con il suo carico di dati macroeconomici, fosse una di quelle importanti ed in effetti così è stato. Alcuni di questi dati ci stanno obbligando ad un lavoro di revisione delle aspettative che potrebbe avere, ma non è ancora certo, delle ripercussioni sulle nostre asset allocations.
I numeri più importanti, anzi praticamente tutti, arrivano dagli USA e siamo perfettamente coscienti che sarete stufi di sentir parlare sempre delle stesse cose ma non possiamo farne a meno. La retorica della BCE è, nè più nè meno, quella della FED e considerato che negli Stati Uniti il processo economico è avanti di almeno 3/4 mesi rispetto al nostro, giocoforza siamo pressoché obbligati a radiografare tutti i dati che l'apparato statistico americano ci mette a disposizione anche nel difficile tentativo di anticipare quello che potrebbe accadere alla nostre latitudini.
Ma procediamo con ordine. Martedì 14 tutta la nostra attenzione si è focalizzata sull'inflazione americana. Il CPI del mese di gennaio era attesissimo ed in parte, putroppo, ha leggermente disatteso le aspettative:
Sebbene il trend del rincaro confermi la sua direzione ribassista, nel mese di gennaio i progressi sono stati inferiori alle aspettative, anzi... potremmo quasi dire di aver camminato sul posto: dal 6.5% del mese di dicembre per gennaio era atteso un 6.2% ma la realtà si presenta con un insoddifacente 6.4%. La core inflation è al 4.6% e sta purtroppo accelerando dolcemente. Infatti mese su mese l'inflazione è cresciuta dello 0.5% a causa dell'aumento del costo dei servizi, un settore molto sensibile all'incremento del costo del lavoro, e del prezzo degli alimentari che dallo scoppio del conflitto Russo-Ucraino sta diventando una componente sempre più importante del rincaro (in giallo nel grafico).
Purtroppo quest'ultima si sta dimostrando estremamente appiccicosa in quanto non è guidata solo dall'aumento della domanda ma è vittima di una serie di circostanze che vanno dalle difficoltà di approvvigionamento delle materie prime di base, ai problemi climatici che stravolgono i piani di produzione, alle epidemie come quella di aviaria che ha mandato alle stelle il prezzo delle uova negli USA ma non solo. E' evidente che per risolvere questo genere di problematiche non basta qualche aumento dei tassi di interesse...
E' palese che un'inflazione al 6.4%, ben lontana dall'agognato obiettivo del 2%, sta portando acqua al mulino della FED che non perde occasione per farci sapere che i tassi saliranno ancora. E' un mantra che va avanti da mesi al quale fino ad oggi il mercato, persuaso che Powell stia bluffando, non ha mai creduto con convinzione. Ma andiamo avanti.
Mercoledì 15 altra doccia fredda (per Powell):
Le vendite al dettaglio americane per il mese di gennaio hanno subito un balzo inaspettato: dal -1.1% di dicembre al 3% di gennaio 2023... le aspettative parlavano di un +2%. Insomma, come loro consuetudine, gli americani continuano a spendere... ennesimo dato pro-inflazione. Ed intanto la ruota del mulino della FED gira sempre più forte.
Ma da dove arrivano i soldi che gli statunitensi hanno in tasca?
In buona parte dall'attività lavorativa: sono in una situazione di pieno impiego con paghe orarie (per il momento) in continua ascesca (vedi grafico con i dati fino a gennaio 2023)......come in continua ascesa è il debito contratto con le carte di credito che per fine 2022 ha quasi raggiunto il trilione di dollari. Chissà se i diretti interessati sono consapevoli che il costo di questo debito sta sfiorando il 20% (!)? E' ovvio che da questa situazione, in un futuro non troppo lontano, possono nascere dei bei problemi...
Riassumendo: gli americani stanno consumando parecchio, molto come al solito è a debito e di risparmiare non se ne parla.
Poi arriviamo a Giovedì 16.
Come volevasi dimostrare le nuove richieste di disoccupazione sono basse e leggermente al di sotto delle aspettative. Insomma il mercato del lavoro continua ad essere tonico ed assorbe con facilità, a giudicare dai numeri, chi un lavoro lo perde. Questa tonicità, paradossalmente, è la principale generatrice delle notti insonni di Powell.
Se poi aggiungiamo anche un Producer Price Index al rialzo, le possibilità che a marzo Powell rinunci ad aumentare i tassi dello 0.25% si riducono a zero. Anzi, a onor del vero, dobbiamo segnalare che un aumento dello 0.5%, che fino a qualche giorno fa era dato per impossibile, inizia ad essere una ipotesi che non possiamo completamente scartare (anche se noi non ci crediamo).
A questo punto se avete le idee un po' confuse sappiate che siete in buon compagnia. Anche noi stiamo cercando di riordinarle!
Da una parte siamo confrontati con un mercato del lavoro che, non solo negli Stati Uniti ma anche in molti paesi europei, è decisamente tonico. In queste condizioni non sarà facile abbattere l'inflazione al 2% in tempi rapidi e dovremo quindi convivere durante il 2023 con un rincaro più elevato che impedirà alle Banche Centrali di essere più accomodanti. Insomma, di tagli ai tassi per quest'anno non se ne parla.
Poi abbiamo un altro scenario, quello che ci parla di una recessione in arrivo per l'inizio dell'estate e che sembra essere supportato anche dagli outlook delle aziende che in molti casi vedono se non nero per lo meno grigio. Infatti si stanno portando avanti con i lavori ed hanno già iniziato a licenziare il loro personale nel tentativo di mantenre i profitti futuri a livelli accettabili. Se la recessione sarà di quelle importanti allora un taglio ai tassi è assai probabile.
Come vedremo fra poco, soprattutto gli investitori del reddito fisso, si stanno orientando verso il primo dei due scenari, quello che comporta una previsione di tassi alti che resteranno tali per parecchio tempo.
Riproponiamo, in quanto è troppo importante, il grafico dei rendimenti dei Treasury a 2 (in nero) e a 10 anni (in rosso). L'inversione della curva è sempre più ripida: il due anni sembra aver accelerato la sua salita e non ci meraviglieremo più di tanto se a breve sarà sopra il 5% (siamo al 4.61). E' chiaro che in queste condizioni i primi a farne le spese sono gli investitori obbligazionari, ma con delle rese praticamente senza rischio superiori al 5% è ovvio che potrebbero fare una bella concorrenza anche all'universo azionario...
Stesso discorso per l'indice che accorpa le obbligazioni societarie in euro... la partenza è stata promettente ma siamo ritornati praticamente ai piedi della scala; manca poco. Per una gestione 70/30, dove il 70 rappesenta la percentuale di obbligazioni presente nei depositi degli investitori, è ovvio che un rialzo dei tassi è una sorta di incubo che si palesa ad ogni riunione della FED o della BCE...
La settiama è stata movimenta anche per il settore azionario. Lo S&P500 è uscito dal canale ascendente e probabimente correggerà fino all'incontro con la media mobile dei 50 giorni (linea viola); tale incontro dovrebbe avvenire in zona 4000 punti che rimane un livello importante sotto il quale non vogliamo che l'indice vada.
Anche il modello del nostro amico Ned Davis prevede una correzione durante la seconda parte del mese di febbraio per poi ripartire agli inizi di marzo... gli vogliamo credere!
Il nostro indice sta lottando con i denti per restare in zona 11'250 punti e anche se a fatica per il momento sembra riuscirci. Ci pensa la media mobile a 50 giorni (linea viola) a ributtare l'indice verso l'alto. Molto dipenderà da cosa vogliono fare Roche, Novartis e Nestlé che venerdì sul finale di borsa si sono finalmente risvegliate... speriamo che duri.
Il dollaro dovrebbe approfittare del rialzo dei tassi americani ma non riusciamo bene a capire cosa intenda fare: venerdi ha avuto una fluttuazione importante di 100 basis point (freccia verde) per poi chiudere la giornata praticamente come l'aveva iniziata... il differenziale di rendimento contro il chf (ma anche contro euro) dovrebbe giocare a suo favore ma per il momento non sembra che sia così... noi comuque teniamo la posizione in dollari americani invariata.
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