Questa settimana siamo stati sollecitati da più parti a dire la nostra su quello che sarà l'evoluzione a breve del dollaro e dell'oro. Abbiamo quindi ripreso in mano il quaderno degli appunti al fine di approfondire e puntualizzare quanto analizzato nel nostro ultimo intervento.
L'intento, alla luce dei dati che sono stati pubblicati questa settimana, è quello di valutare se lo scenario che ci proietta verso un probabile taglio ai tassi americani può essere confermato. Le ripercussioni, se così sarà, le vedremo non solo sul dollaro (probabilmente al ribasso) e sui metalli preziosi ma ci sarà del movimento in arrivo anche per obbligazioni e titoli azionari.
Comunque, per capire fino in fondo cosa sta succedendo alla valuta americana, non possiamo ignorare quello che sui quotidiani e nei siti finanziari di mezzo mondo sta tenendo banco e che l'Economist non esita a difinire come "la guerra di Trump alla Federal Reserve", una guerra che potrebbe avere conseguenze poco simpatiche che cercheremo di mettere in risalto.
Ma partiamo da un dato statistico (clicca sul grafico se non vedi bene):
Le probabilità che il 17 settembre la FED proceda con un taglio ai tassi dello 0.25% sono, al 30 di agosto, dell'86.4% (alla fine di luglio erano del 63.3% e la scorsa settimana erano all'84.7%). Diciamo che un taglietto è praticamente quasi scontato. A quanto pare ciò che ha convinto Powell a diventare più dovish sono stati i dati sul mercato del lavoro che a suo giudizio è "in uno strano equilibrio": in sostanza ritiene che la domanda e l'offerta di lavoro stia rallentando all'unisono mantenendo artificiosamente stabile la disoccupazione ma riducendo in tal modo il respiro dell'economia. Noi, se ben ricordate, avevamo cercato segnali tangibili di un rallentamento della domanda e dell'offerta di lavoro, ma in realtà non ne avevamo trovati; ci era persino sorto il sospetto che il cambio di passo di Powell fosse una risposta alle sollecitazioni di Trump.Ma un sospetto non è una certezza e ci siamo detti che forse bisogna indagare più a fondo in quanto è probabile che qualche cosa ci sia sfuggito. In effetti è possibile che non abbiamo dato il giusto peso alla revisione dei non farm payrols (i nuovi posti di lavoro non agricoli): sappiamo che questo dato è soggetto a revisioni anche piuttosto importanti ma quelle al ribasso di maggio e giugno (ovale rosso) sono state impressionanti! Qui bisognerebbe aprire, ma oggi non lo faremo, un dibattito sulla qualità sempre più scadente dei dati raccolti dal Bureau of Labor Statistics, qualità che è costata il posto di lavoro al suo direttore licenziato sui due piedi da Trump. Dovremo aspettare il 5 di settembre per avere il prossimo dato ma quella prima stima di 73'000 posti di lavoro, pochini a dir la verità, non promette nulla di buono e probabilmente giustificherà il taglio del 17 settembre.
Anche il PCE (l'indicatore di inflazione americana preferito dalla FED) per il mese di luglio è rimasto stabile: per il momento, malgrado i dazi, non sembrano esserci spinte eccessivamente inflazionistiche ma forse per cantare vittoria è un po' presto. Vedremo quando le scorte di magazzino, accumulate in fretta e furia prima dell'applicazione dei dazi, saranno terminate e poi ne riparleremo. E' comunque un altro dato che dovrebbe, nel breve termine, tranquillizzare Powell e permettergli di tagliare i tassi senza troppi patemi d'animo e con buona pace del dollaro che continuerà con ogni probabilità ad indebolirsi.
Insomma, Trump tutto sommato sta ottenendo quello che vuole: un dollaro debole! Nei confronti di un paniere contenente le principali 6 valute a livello mondiale (DXY) ha già perso da inizio anno il 10%... andare ancora più giù, ahinoi, non è impossibile. Tra tassi al ribasso, banche nazionali che vendono e, diciamocelo, un'America che sta tirando i remi in barca nei confronti del resto del mondo non vediamo come sia possibile per il momento cambiare il trend discendete.
E' noto a tutti che una valuta nazionale eccessivamente debole, soprattutto per una nazione grande importatrice com'è l'America, è potenzialmente foriera di un'inflazione in (forte) crescita che trascinerebbe i tassi proprio dove Donald non vorrebbe, al rialzo! Vi segnaliamo che lo spread tra i tassi a corto - quelli fino a 2 anni controllati direttamente dalla banca centrale - e quelli a lungo "decisi" dal mercato è al massimo degli ultimi 3 anni a significare che gli investitori sono preoccupati per l'inflazione futura e se, come evidenziato dall'Economist, la guerra contro la FED dovesse continuare fino a minarne l'indipendenza le cose potrebbero solo che peggiorare. E' il maggior pericolo per la valuta americana che noi conosciamo e su questo tema dobbiamo, abbiate pazienza, fermarci un attimo per mettere bene in chiaro cosa potrebbe succedere.
Sappiamo tutti che il ruolo di una Banca Centrale, detto in maniera parecchio generica, è quello di stabilizzare l'inflazione attraverso la manipolazione dei tassi di interesse. La particolarità di quella Americana (FED) è di aver ricevuto un doppio mandato sancito dal Congresso USA che si esplica in:
- Favorire la massima occupazione possibile nel lungo termine.
- Stabilizzare i prezzi: ovverosia mantenere l'inflazione attorno al 2%.
Riassunto all'osso: deve tenere l’inflazione sotto controllo senza soffocare l’economia mantenendo l’occupazione la più alta possibile.
Per raggiungere i suoi obiettivi una Banca Centrale deve avere un'autorevolezza che le deriva da un mix di almeno tre fattori:
- Legittimità: deve avere un chiaro mandato riconosciuto dallo Stato;
- Credibilità: le deriva dalla fiducia dei cittadini ma soprattutto dei mercai grazie a risultati eccellenti e alla coerenza nei comportamenti;
- Indipendenza dalla politica: NON deve essere soggetta a pressioni, soprattutto nel breve termine, di alcun genere da parte dell'apparato governativo.
Gli Usa sono uno dei paesi più indebitati al mondo in termini assoluti: cosa significa avere una FED che non è totalmente indipendente dal potere politico? La domanda è importante perché in gioco c'è il rapporto tra debito pubblico, la politica e la banca centrale.
Il debito pubblico statunitense si avvicina a grandi passi ai 37 trilioni di dollari e per il momento gli americani riescono a finanziarlo senza troppi problemi essendo il dollaro valuta di riserva globale. La domanda di dollari rimane per il momento ancora elevata così come resta elevata la richiesta dei buoni emessi dal Tesoro (Treasury). Ma se non ci fosse una FED indipendente che fa da garante e i mercati iniziassero a dubitare che la banca centrale americana stampa dollari solo per aiutare il governo a ripagare i suoi debiti, dove pensate che andrà a finire la sua valuta?
Uno dei migliori appunti finanziari se non il migliore in assoluto. Grazie e buona domenica.
RispondiEliminaAnonimo ma non poi tanto.